“Ma sì, scriverò un racconto. Si dice che per chi legge molto, pensare di scrivere diventa una conseguenza inevitabile. Sono un lettore forte, e allora lo scrivo questo racconto! Sì, ma piacerà? Beh, non importa, tanto poi lo schiaffo in un cassetto…”
Eh no, scrivere dev’essere una forma di comunicazione, il tuo pensiero nasce, cresce, s’innalza, e lo fissi sulla carta. Chi scrive sa vedere, desiderare e descrivere un mondo diverso, e sa racchiuderlo nelle proprie frasi con la combinazione delle lettere che l’alfabeto gli mette a disposizione. Ma se non ci si rivolge almeno a qualcuno, cosa scriviamo a fare? Non può essere una forma di solitudine, dev’essere un parlare a qualcuno che poi ti leggerà. Un trasformare un’emozione in qualcosa di bello e piacevole per noi e per i nostri lettori, siano essi uno o centomila, escludendo il pirandelliano “nessuno”. Anche il Manzoni afferma di rivolgersi a dei lettori. 25, per la precisione. Eh già, 25. Non ce la dà a bere, confidava di averne milioni, l’ipocrita! E gli è andata bene. Sì, ma nel mio caso? Come verrò giudicato? C’è chi parte dal presupposto che non va cercata la totale approvazione sociale. Tanto, qualunque cosa tu faccia, metà della gente che conosci la disapproverà comunque. Beh, cerchiamo di non essere così drastici, anche se può essere difficile coinvolgere nella stessa misura l’analfabeta di ritorno e il critico letterario. Insomma, lo scrivo o no questo racconto? Ci sono sempre due forze che tirano in direzioni opposte, a determinare il corso della nostra esistenza. La vita è il prodotto di una serie di accadimenti e delle decisioni che si prendono… Quindi? Ma dai, basta con queste elucubrazioni, inizio il racconto! Anche se dicono che i peggiori briganti sono attratti dalla politica, i più sconvolti sono portati per l’arte, i malati di mente passano il tempo a scrivere. Sarà vero? In ogni caso tutti abbiamo una nostra forma privata di pazzia. Se è d’intralcio a troppa gente ti qualificano matto. O disadattato, come da giovane mi è già capitato, quando chiamavo troppe cose ingiustizia rifiutandomi di capire che è la vita a essere normalmente ingiusta. E a poco serviva replicare che disadattato è una definizione semplicistica dietro cui si nasconde l’eterno, insanabile conflitto fra l’originalità di una visione del mondo individualistica e sognante e una realtà dominata dai puri rapporti di forza e dalle leggi economiche. Acqua passata. Per fortuna o purtroppo? Bah, matto o disadattato, di certo scrivere è un affare per visionari. Lo siamo tutti, eh, perché non si può vivere senza immaginare di continuo, senza storie che facciamo nostre. Scrivere è uno dei pochi modi per vivere più di una vita in universi paralleli che vai a scoprire da qualche parte. Qualcosa di simile ai sogni, che hanno la stessa imprevedibilità, e mettono in gioco cose alle volte incomprensibili, quelli che si raccontano alle persone care, agli amici, magari allo psicoanalista. Con la scrittura lo si fa al foglio bianco. Ma mica è facile, bisogna lavorare con fatica per arrivare a quella specie di piacere totale, fisico e mentale che la scrittura sa dare, lo sperdimento che dà un senso speciale alla vita, che dà a ogni parola il valore di un marmo pregiato con cui si costruisce una cattedrale. Poi magari si tratta di una stamberga, ma il sentimento di grazia rimane lo stesso. La stesura sarà una sofferenza e la strada che porterà, forse, al mare sarà tortuosa e accidentata nella speranza che alla fine di quel calvario possa splendere la luce. Metaforicamente, rovescerò cassetti, aprirò armadi, svuoterò cantine dove trovare un po’ di tutto. Cose che nemmeno immaginavo di avere mi forniranno buone idee per scrivere. Nutrirò il bambino entusiasta che è in me, libererò la sua curiosità, accenderò la mia sana follia e continuerò a sognare. Sono pronto, ho in testa un buon incipit e, partendo bene, le parole scorreranno come dettate da una musa ispiratrice. La storia si scriverà da sé…
Era una notte buia e tempestosa…
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