Parlare di Franco Loi è innanzitutto confrontarsi con la definizione che spesso sentiamo di lui e siamo abituati a nostra volta a ripetere: il più grande poeta italiano vivente.
Frase che può voler dire tutto, o forse nulla, della grandezza di questo Autore, l’ultimo grande “vecchio” di quella classe poetica della prima metà del novecento che ha segnato appunto un’epoca.
Ecco, definirlo, seppur con un virgolettato, “vecchio” mi porta ad una prima considerazione. Fin dal mio primo incontro con lui ricavai la sensazione di trovarmi davanti un corpo maturo in cui era imprigionato lo spirito di un ventenne: una sensazione che ho ricollegato in passato a personaggi della levatura di un Sandro Pertini o di un Giovanni Paolo II.
Dietro le rughe e gli acciacchi dell’età scopri invece un’anima ancora giovane, pronta ad entusiasmarsi a sognare ad aprirsi alla vita e alla speranza.
Di Franco sono stati fatti molti ritratti soprattutto come grande poeta e uomo di cultura, le mie parole non aggiungerebbero nulla alla voce di personaggi molto più autorevoli. Quello su cui però vorrei brevemente soffermarmi è il suo lato umano. Ho già detto della sua anima ancora giovane ma oltre questo ci sono altre peculiarità che lo riguardano e che ho imparato a conoscere ed apprezzare in questi ultimi anni.
La sua innata educazione, cortesia, gentilezza, accoglienza.
Il suo amore per le persone, il suo interesse nei loro confronti, il suo accettare sempre il dialogo, il suo dialogare sereno senza voler imporre nulla o elevarsi a maestro infallibile. Il saper ascoltare le repliche che gli vengono mosse e quel suo riflettere su di esse, valutandole e rispondendo al suo interlocutore, dandogli ragione, se lo merita.
E’ davvero un piacere ascoltarlo, dialogare con lui: dopo un po’ capisci che quella semplicità è il presupposto della sua grandezza, innanzitutto come uomo. Quello che colpisce è il modo in cui ti accoglie nella sua casa fosse la prima o la centesima volta che ti riceve. Quante volte sentiamo di autori o personaggi importanti che vivono in una sorta di “dorato” isolamento in cui centellinano visite e visitatori. Franco ci ha aperto subito la porta, ci ha introdotti nel salotto di casa dove abbiamo trovato sua moglie, le sue figlie, il suo celeberrimo gatto. Non solo: ad amici appassionati di poesia che ci chiedevano se potevano omaggiarlo con una visita, non ha mai detto di no.
Questo è Franco Loi al di là della sua grandezza come poeta, al di là della sua classe personale; ed è davvero un onore potermi considerare un suo amico e accoglierlo oggi a Grottammare come uno di noi.
Benvenuto caro Franco, neo Grottammarese, benvenuto nella nostra città che tu contribuirai ancor più ad impreziosire grazie alla tua essenza umana.
Giuseppe Gabrielli – Pelasgo 968
Segretario del Concorso Letterario
Città di Grottammare
UN INCONTRO SPECIALE: INTERVISTA A FRANCO LOI di Elena Malta
Vorrei chiederti, Franco, cos’è per te l’Associazione Culturale Pelasgo 968, che si pregia della tua figura intellettuale di riferimento e chi siamo noi per te?
Franco: Io sono contentissimo di voi; siete persone valide e ognuno ha la sua funzione, il suo ruolo preciso. Vi sento consapevoli che per quanto si legga, per quanto si possa essere colti, siamo sempre più davanti al mistero. Più si conosce qualche nuovo tratto del mondo, della vita, più ci si apre una infinità di altro che non conoscevo.
E non si finisce mai, si procede di tappa in tappa, in un percorso con mete sempre transitorie?
Franco: No, non si finisce mai; è un processo dinamico, che ci impegna continuamente, è il soffio dell’aria che ci è intorno e che ci informa di sé, ci avvolge tutti senza che noi lo decidiamo.
Qual è il compito di uno scrittore in questa dinamica vitale in continuo divenire?
Franco: Uno scrittore di racconti o di poesia è come uno che va a letto e sogna. Non è lui a decidere quello che sogna, ma è lo sconosciuto che è dentro di lui. Lo scrittore, un giovane scrittore deve conoscere quello sconosciuto che ha dentro, deve conoscersi profondamente perché è lì la fonte della creatività, dei nostri sogni, resi in lingua e cultura.
Tu pensi, Franco, che la creatività sia un processo intuitivo o basato su strategie di logica?
Franco: La creatività è un processo puramente intuitivo che matura attraverso un rapporto amoroso con l’esperienza quotidiana, qualunque essa sia. Un operaio che ama il suo lavoro, scopre che quel suo fare gli fa imparare qualcosa di nuovo del proprio mestiere e contemporaneamente di se stesso, ed è proprio allora che arricchisce la propria interiorità e si trova ad accedere a quel ‘fare creativo’ che è Poiesis, un fare spirituale, prodotto in lingua e scrittura. Si sperimenta allora di essere in grado di aggirarsi dentro un sogno e quel sogno diventa mio!
Franco, ti chiedo di illuminarmi sull’uso della lingua dialettale nella produzione letteraria, rispetto alla lingua italiana.
Franco: Accanto alla Poesia, ho scritto testi di Narrativa, testi per Teatro, ma ho scelto il Dialetto come la lingua della poesia perché sono convinto che il Dialetto è una lingua che non muore mai. E’ ricca di termini antichi che vengono usati con naturalezza ed è uno strumento espressivo che si arricchisce continuamente. Dante ha scritto in fiorentino, la lingua che ha appreso dalla sua nutrice, una donna popolana che gli ha parlato ogni giorno la lingua del popolo, una lingua che ogni giorno si modifica e si innova sempre. Il Dialetto è una lingua con cui tu ascolti e dici! La lingua Nazionale invece deve essere codificata per motivi politici, tende quindi a cristallizzare nella forma.
Domenica 21 luglio sarai a Grottammare, sei mai stato in questa Città prima d’ora?
Franco: Sì, sono stato a Grottammare due volte, qualche tempo fa, ma prima non era come adesso, conservo vivo il senso di accoglienza della gente del luogo, quel fascino di altri tempi.
Non ho avuto contatti e frequentazioni particolari con persone, allora!
Ricordo la luce e i colori riflessi dal mare sulle strutture medievali del borgo antico, nella parte Alta; sono tratti che catturano e restano scolpiti dentro.
La Città di Grottammare ti apre le sue porte e ti accoglie Suo Cittadino Onorario.
Come ti appare questa proposta e con quale spirito vieni ad incontrarci?
Franco: Mi ha fatto molto piacere ricevere la vostra richiesta e sono felice di venire ad incontrare la Vostra Simpatia.
Il Grande Spirito disse: “Finché io ti possa servire, prendimi se sono utile.”
Grazie, Franco, perché sei testimone di Luce.
62 a. C. Cicerone, già console, dopo il successo delle orazioni contro Catilina, al culmine della sua carriera di retore e di politico, decide di affrontare una causa minore: difendere il vecchio e conosciuto poeta Archia, nato ad Antiochia nel 120 a. C., autore di poemi che avevano celebrato famosi condottieri della storia recente di Roma, accusato di aver usurpato la cittadinanza romana. Nasce così una delle orazioni più belle di Cicerone, la Pro Archia poeta, un elogio altissimo e appassionato sul valore educativo e civile delle Humanae Litterae. Per Cicerone il nome di “poeta” deve essere “sacro”, poiché divina è la sua ispirazione. E se gli abitanti di Colofone, di Salamina, di Chio e di Smirne fanno a gara per contendersi la nascita di Omero, come può Roma rifiutare la cittadinanza ad Archia? I poeti non sono mai stranieri, non sono mai forestieri. Sebbene di origini greche, Archia è cittadino del mondo, poiché in quanto poeta parla universalmente a tutti gli uomini, al di là delle culture, oltre i confini.
Per questo, da sempre, Franco Loi è nostro concittadino, lo era già prima ancora che il Consiglio comunale gli concedesse la cittadinanza onoraria. Agli amici dell’associazione “Pelasgo” va tutta la nostra riconoscenza per averlo condotto “in patria”, in una delle migliaia di patrie che il nostro poeta potrebbe abitare diffuse nel globo, cittadino del mondo più di ogni altro. Per me, dopo averlo studiato, commentato, dopo aver compreso meglio dai suoi versi la nullità del nostro essere mortale (“Sèm poca roba, Diu, sèm squasi nient”), le vergogne della nostra Nazione (“Italia ladra, terascia de cü alégher, / fundéga d’arlecchín e spüa-sül-piatt”), dopo aver imparato la pietà per le vittime senza nome della Storia (“Oh quanta gent che morta sü’ na strada / la storia l’è passada sensa véd”) e aver pianto insieme a lui la morte di un padre (“Oh pader, ch’a parlà mai te scultavi, / che nustalgia de tí porta la vita!”), è per me dicevo un onore immenso – forse il più grande della mia esperienza da sindaco – accogliere Franco, aprirgli le porte della nostra casa, poterlo incontrare e ascoltare.
Chi avrà la fortuna di essere insieme a noi in quel giorno, sono certo, porterà con sé un insegnamento utile anche sul significato più autentico di cittadinanza, oggetto in questi tempi crudeli di una pericolosa deriva identitaria, ridotta ad un primitivo diritto concesso dal sangue, dalla razza, o da chissà quale altra diabolica invenzione costruita per nascondere e legittimare la paura del diverso, la fragilità della nostra civiltà. Anche questo la poesia ha il compito di spazzare via: la miseria dell’egoismo, la superbia degli ignoranti, la disumanità dei vigliacchi e la menzogna del potere. “Se scriv perché la vita la sia vera”. Si scrive perché la vita sia più vera.
Enrico Piergallini
Sindaco di Grottammare
Concorso Letterario Città di Grottammare
www.pelasgo968.it
pelasgo grottammare (Facebook)
Associazione Pelasgo 968 – Grottammare
21 LUGLIO 2019: FRANCO LOI, UNO DI NOI
Nato a Genova, ha vissuto fin dal 1937 a Milano, città alla quale si legano intimamente il suo mondo poetico e la scelta del dialetto come lingua di poesia. La vocazione epico-narrativa della poesia di Loi, infatti, si caratterizza in senso espressionista, mediante l’uso personalissimo di un lessico dialettale e gergale attinto dagli strati popolari e proletari della città e dell’Interland. La rappresentazione tragica e grottesca della Milano popolana della giovinezza, pure sensibile a continui sconfinamenti lirici e visionari, non è infatti
disgiunta dalla riflessione sulla società moderna, le sue contraddizioni e i suoi disagi, non esistendo per Loi due modi distinti di «essere uomo ed essere poeta», ma uno stesso impegno culturale, etico e civile, responsabilmente affidato alla poesia. Al di là dei dialetti tuttavia, è la visione della poesia di Franco Loi a dare il metro della statura dello scrittore, visione molto ben caratterizzata in un’intervista rilasciata nel 1990 nella quale alla domanda “Come si pone il poeta in rapporto al proprio tempo? La poesia è testimonianza storica, è partecipazione civile? O è visionarietà, è capacità di andare oltre la realtà apparente delle cose, di poter scorgere, l’al di là delle limitazioni e contingenze quotidiane, il senso più profondo della vita e anche della morte?” Loi risponde: “Lo sappia o non lo sappia il poeta è nel proprio tempo. Ma qual è il tempo? Per me è contemporaneo Dante, ed è mio contemporaneo anche Platone.
Il poeta non è fuori da questa vicenda storica. Sicuramente non si comprende la funzione della poesia, se non si comprende anche la sua natura politica. Il che non significa un uso della poesia, ma un’accettazione della più profonda essenza della poesia. Rivelando all’uomo ciò che non conosce e non sa, di sé, della natura, del mondo, la poesia rivela alla società una presenza al di fuori delle ideologie, delle dottrine, delle culture intellettuali.
La proposta del poeta è dunque proposta incessante di un uomo al di fuori degli schemi culturali. La cultura ufficiale di una città è messa in crisi dalla poesia e la città accresce la sua visione di sé e delle proprie motivazioni sociali accogliendo la parola dissacrante del poeta. Voglio dire che una società, nel più alto significato della parola, è quella che ascolta il poeta. Accettare la poesia è accettare il diverso. La poesia e la religione non dicono mai: “Questo è il mondo”. Ma semmai: “Questo è il mio modo di essere nel mondo”. La poesia, come la religione, dice: “La conoscenza della mente non è sufficiente a disegnare il mondo”. Così l’apporto della poesia alla città è apertura verso il possibile e verso l’altro da sé. Il senso più profondo della vita e della morte viene dall’uomo stesso. La poesia è figlia dell’uomo, non è un’astrazione letteraria. La poesia è il modo in cui l’uomo tiene vivo in sé e quindi nella città la verità dell’essere e del vivere. La poesia richiama dunque incessantemente la città allo sguardo. Questo è il compito politico della poesia. È come se qualcuno guardasse soltanto da un lato e lo si prendesse per le spalle e gli si mostrasse l’altro lato. Così la poesia allarga alla visione”.
La Città di Grottammare, con questo riconoscimento a Franco Loi, vuole fare proprie le parole e le intenzioni del poeta che esprimono alcuni dei valori più radicati nella sua comunità: la partecipazione civile, l’accettazione del diverso, l’apertura verso gli altri, la necessità di guardare sempre più in là.
Dalla DELIBERA N. 33 del 23 Maggio 2019
Comune di Grottammare CONCESSIONE CITTADINANZA ONORARIA A FRANCO LOI
“L’azione di chi fa poesie va contro il potere.
La poesia ha il potere di ricondurre l’uomo alla sua coscienza più vera.
Chi ha potere, difficilmente desidera che i suoi sottoposti abbiano una propria coscienza. Vuole guidare.
La situazione odierna è tragica.
È caduta la teologia cattolica.
È caduta l’ideologia comunista.
Gli uomini non hanno nulla in cui credere. Quello che gli viene da fuori lo ricevono come una verità e una cultura.
Adesso accettano lo scientismo e il positivismo.
Basta il corpo.
La cultura è utile solo se porta soldi e sesso.
O, al limite, altro potere”.
Da Tempi.it – Intervista di Daniele Ciacci
Da L’ARIA
Se scriv perchè la mort
Se scriv perchè la mort, se scriv ‘me sera
Se scriv perchè la mort, se scriv ‘me sera
quan’ l’òm el cerca nient nel ciel piuü,
se scriv perchè sèm fjö o chi despera,
o che ‘l miracul vegn, forsi vegnü,
se scriv perchè la vita la sia vera,
quajcòss che gh’era, gh’è, forsi ch’è pü.
(Si scrive perché la morte, si scrive come sera
Si scrive perché la morte, si scrive come sera
quando l’uomo cerca niente nel cielo piovuto,
si scrive perché siamo ragazzi o chi dispera,
o che il miracolo venga, forse venuto,
si scrive perché la vita sia più vera,
qualcosa che c’era, c’è, forse non c’è più.)
Da LIBER
Sèm poca roba, Diu, sèm squasi nient
Sèm poca roba, Diu, sèm squasi nient,
forsi memoria sèm, un buff de l’aria,
umbría di òmm che passa, i noster gent,
forsi ‘l record d’una quaj vita spersa,
un tron che de luntan el ghe reciàma,
la furma che sarà d’un’altra gent…
Ma cume fèm pietâ, quanta cicoria,
e quanta vita se porta el vent!
Andèm sensa savè, cantand i gloria,
e a nüm de quèl che serum resta nient.
(Siamo poca roba, Dio, siamo quasi niente
Siamo poca roba, Dio, siamo quasi niente,
forse memoria siamo, un soffio d’aria,
ombra degli uomini che passano, i nostri parenti,
forse il ricordo d’una qualche vita perduta,
un tuono che da lontano ci richiama,
la forma che sarà di altra progenie…
Ma come facciamo pietà, quanto dolore,
e quanta vita se la porta il vento!
Andiamo senza sapere, cantando gli inni,
e a noi di ciò che eravamo non è rimasto niente.)
Se sbroffi di paroll l’è per piasèm,
e per piasè al Diu che m’à creâ,
a l’Angel che sta drè a quèl che fèm,
aj òmm che stan scundü tra i so pecâ…
L’è un sumenà de tütt la buttunera,
un fresch giardin de rös che se culura,
un sfàss ne l’aria d’un’aqua mia sincera…
L’è inscì, amîs, che canta la speransa,
dèm libertà aj penser, fèm che sia vera
la carna ch’un quaj diu g’à dâ in sumensa.
Se spruzzo fuori parole è per piacermi, / è per piacere al Dio che mi ha creato, / all’Angelo che vigila su quel che facciamo, / agli uomini che stanno nascosti tra i loro peccati… / E un seminare di tutto ciò che germina in noi, / un fresco giardino di rose che si colora, / uno sfarsi nell’aria d’un’acqua mia sincera… / E così, amici, che canta la speranza, / diamo libertà ai pensieri, facciamo sia vera / la carne che un qualche dio ci ha dato per frutto.
De Diu sun matt…
De Diu sun matt, se streppa la cusciensa.
Vu ‘n gir, el pensi, me ‘l remèni, e vu…
E püssè ‘l pensi, e pü ghe sun luntan.
Diu l’è schersûs… L’è cume fa la lüna,
ch’i mè penser în nüver, e lü se scund.
Inscì, me tundi via, parli cuj òmm,
e matta l’è la lüna, ciara lünenta,
cun la sua lüs che slisa ne la nott.
Di Dio sono pazzo, si strappa la coscienza.
Vado in giro, lo penso, me lo rimugino, e vado…
E più lo penso, e più gli sono lontano.
Dio è scherzoso… E’ come fa la luna,
che i miei pensieri sono nuvole, e lui si nasconde.
Così, mi distraggo, parlo con gli uomini,
e matta è la luna, chiara luneggiante,
con la sua luce che scivola nella notte.