Leggere, analizzare, valutare, commentare oltre 100 poesie in tutti i dialetti d’Italia è stato un grande piacere. Piacere che viene da alcune considerazioni che mi hanno rafforzato la convinzione che il dialetto sia l’espressione dell’emotività, dell’immediatezza, della spontaneità. Sono tante le persone che utilizzano il vernacolo per esprimere le proprie idee, ricordi, sensazioni, intuizioni; anche se…
Anche se non tengono conto che mettere per iscritto un suono, un’espressione, che abbiamo ascoltato o pronunciato migliaia di volte, non è così facile come sembrerebbe.
Partiamo da un assioma imprescindibile: la Poesia è un architrave poggiato su due pilastri: Testa e Cuore (o, possiamo dire: Tecnica e Sentimento, Controllo e Passione, Penna e Idea, ecc.). Quando uno dei due pilastri non regge, la Poesia cade. Più o meno rovinosamente.
Nel valutare il livello tecnico delle poesie esaminate mi è capitato più volte di trovare modi diversi per scrivere nello stesso dialetto la stessa parola, frase, suono.
La prima considerazione è relativa ad una evidente “carenza” dell’autore. Carenza di documentazione, di punti di riferimento, di scuola.
La scelta di esprimersi in una lingua qualsiasi, presuppone la conoscenza della lingua stessa: ma, un conto è parlarla (e tutti sappiamo che il dialetto nasce, si afferma e rimane una lingua “orale”) un conto è andare a vedere se esiste una grafia codificata.
Molti dialetti hanno, per fortuna, una tradizione tale che riferimenti scritti ce ne sono di ottimo livello: pensiamo al dialetto napoletano, o romanesco, o milanese, veneto, friulano, siciliano ecc. I grandi Autori che si sono espressi nella “lingua dei padri” fanno testo: chi volesse imparare, potrebbe farlo facilissimamente: leggere Di Giacomo, Trilussa, Tesse, Baffo, Pasolini, Meli, oltreché arricchire lo spirito dà la possibilità di trovare suoni espressi con segni grafici precisi, puntuali: sicuri punti di riferimento.
Possiamo quindi considerare che la “voglia di dialetto” è diffusa, la cultura specifica meno.
La seconda considerazione è relativa ai contenuti.
Troppo spesso si tende a fossilizzare il dialetto come lingua adatta a temi bucolici, ironici, reminiscenti: i Grandi Temi vengono perlopiù disattesi. Come se per scrivere “Alto” non fosse ritenuto un linguaggio adeguato.
Questo atteggiamento (purtroppo diffusissimo) porta il poeta a tarparsi da solo le proprie ali: si autolimita nel sentimento.
Poche, pochissime, le Poesie che escono fuori da un quadro così ridotto.
Esprimere idee profonde e originali sui Grandi Temi è invece l’essenza stessa della lingua dell’emotività, dell’immediatezza, della spontaneità. Tale è l’immediatezza e la spontaneità, che il tentativo di usare il dialetto per testi ermetici si può considerare un ossimoro.
Ritengo altresì un’offesa al vernacolo quella di usarlo solo per descrivere, raccontare (purtroppo, mai interpretare) le solite cose lette e rilette in tutti i dialetti d’Italia.
In questo modo rendiamo anche il secondo pilastro della poesia, quanto mai instabile e pericolante.
Alla domanda “avanguardia o retroguardia”, come si può rispondere alla luce di quanto detto?
Possiamo sicuramente considerare Avanguardia, la scelta di precorrere (se non altro in termini di tempo), di anticipare la scrittura in italiano, esplorando il futuro della poesia con un mezzo antico. È anche Avanguardia la ricerca volta a integrare (o, addirittura, a sostituire) la poesia in lingua con quella dialettale, come reazione all’inflazione poetica dilagante. È proprio vero che ci sentiamo “un popolo di poeti”: una sterminata pletora di “colleghi di Leopardi”… meglio percorrere strade alternative, meglio il dialetto!
Si può considerare Retroguardia l’attaccamento a forme di espressione che oggi possono apparire anacronistiche, dato l’assottigliarsi continuo e costante degli strati “bassi” della popolazione: quelli che fino ad oggi hanno rappresentato l’humus di tutti i dialetti. Il livellamento verso l’alto economico e sociale, comporta l’abbandono quasi spontaneo della parlata vernacolare. Per fortuna, ci sono ancora letterati che si impegnano a documentare attraverso i loro scritti, quella che è considerata la “lingua dei padri”. Si tratta di persone che ricercano, studiano, scrivono, parlano un linguaggio forse destinato a sparire ma che resta vivo e valido nelle sue espressioni proprio per merito di chi non si sente ancora vinto.
È quindi una battaglia di retroguardia quella che impegna i difensori del dialetto?
Forse sì, ma l’importante è “resistere, resistere, resistere”!
Maurizio Marcelli
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